DALLA MONROE A PELE' L'ARTE DI ANDY WARHOL

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    La dignità non consiste nel possedere onori, ma nella coscienza di meritarli Aristotele

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    Visitare una mostra in anteprima, quando curatori, trasportatori, tecnici e operai specializzati stanno lavorando freneticamente per finire l’allestimento, è un’esperienza piuttosto interessante, perché ti può far comprendere meglio, nelle sue specifiche articolazioni spaziali, la strategia complessiva della narrazione espositiva, e perché può riservarti anche qualche affascinante sorpresa. Ed è quello che mi è successo quando arrivando in una sala vedo intorno a una cassa un gran numero di fotografi e videoperatori. «E’ arrivata Marilyn», mi dicono eccitati. Ed ecco che con infinita attenzione viene estratta dalla cassa un tela che viene appesa al muro accanto a Thirty is better than one , un magnifico lavoro foto-serigrafico con trenta Gioconde del 1963. La Marilyn in questione, Blue Shot Marilyn del 1964, è in effetti un opera assolutamente eccezionale anche all’interno della serie dedicata all’attrice. In mezzo alla fronte c’è una piccola macchia bianca: è il segno (tamponato) di un colpo di pistola sparato da una certa Dorothy Podber, che all’epoca aveva chiesto se poteva «colpire» quel quadro e l’artista credendo si trattasse di una foto («shoot» in inglese vuol dire sia fotografare che sparare) le aveva dato il permesso. Il bello è che la traccia di quel colpo è rimasta lì perché quando il collezionista chiese a Warhol se doveva restaurare il danno la risposta (ironicamente duchampiana) fu: «No, mi piace così, come se avesse una macchia o un brufolo». Ed è quasi fatale che questa Marilyn diventerà la Superstar dell’esposizione di Warhol al Palazzo Reale, che presenta ben 160 opere tutte di Peter Brant, uno dei più importanti collezionisti di arte contemporanea del mondo, che era stato anche grande amico dell’artista (e collaboratore nell’edizione di Interview e nella produzione di film).



    La mostra si sviluppa attraverso otto sale e mette in scena, in modo arioso e senza rigidità cronologiche, una scelta straordinaria di lavori che documentano al meglio tutte le fasi della ricerca di Warhol e tutti i suoi principali temi. Possiamo forse dire che la grande stanza dove c’è Marilyn è quella più emblematica nella sua ben studiata varietà di lavori: si va dalle icone della storia dell’arte e di Hollywood al sublime della banalità di una serie di Flowers (uno di questi ha un sottotitolo geniale A is orange, B is yellow, C&D are pink); dalla tragica e vuota serialità delle Electric Chairs e dei Car Crash alla presenza in centro di una grossa teca con un cumulo di scatoloni, rifatti in legno, di prodotti da supermercato (Brillo, Campbell, Kellog’s, Del Monte). E c’è anche un tocco di horror con The Kiss, il bacio di un vampiro cinematografico, opera già di proprietà di Cy Twombly, che Brant considera come una delle sue preferite perché ha «un’aria così elegante». Ma tutto il percorso è scandito con gruppi di lavori messi insieme dai curatori (lo stesso Brant e Francesco Bonami) con coerenza e efficacia di impatto visivo.



    All’inizio troviamo un’ampia antologia di disegni, collage, e immagini per riviste glamour che documentano il periodo proto-pop, degli Anni 50/inizi 60, quando Warhol si afferma a New York come illustratore. Guardando i profili di giovani, le estetizzanti scarpe fatte di fogli dorati, e altri temi visualizzati con sintetica abilità grafica (anche con valenze ironiche che ricordano Saul Steinberg) ci si rende conto che Warhol aveva una tecnica raffinatissima e che la successiva apparente «banalizzazione» impersonale e «meccanica» è frutto di un’operazione estetica di estrema qualità. E ci si rende conto anche che questa intelligenza e qualità grafica pittorica rimane una delle sostanziali componenti di fondo dell’originalità artistica di tutta la successiva produzione creativa. Un esempio significativo in questo senso un magnifico disegno di un rotolo di Dollar Bills del 1962, uno dei primi lavori comprati da Brant. Tra le sale più spettacolari e provocatorie c’è quella che presenta una enorme tela della serie degli Oxidation Painting (1978) fatta con la pipì di chi frequentava la Factory, un quadro con i travestiti (Ladies and Gentleman), un monumentale omaggio al dollaro (Dolla Sign) e dei lavori sul tema della Vanitas come quelli con teschi e quelli quasi astratti delle Shadows . Per alleggerire la tensione, nella stanza seguente troviamo una dimostrazione eclatante della dimensione mondana dell’artista, dimostrata attraverso un centinaio di foto polaroid che ritraggono tutte le celebrità dell’arte, dello spettacolo e anche della politica della New York, fotografate da Warhol nel suo studio o altrove dal 1972 al 1980. L’elenco delle persone famose è impressionante. Per fare qualche esempio: scrittori come Capote; artisti e galleristi come Lichtenstein e Castelli; stilisti come Saint-Laurent; danzatori come Nureyev; attori e cantanti come Dennis Hopper e Liza Minnelli; sportivi come Pelé e Chis Evert; politici come Jimmy Carter e Ted Kennedy. La mostra si chiude con alcune opere (non belle ma commoventi) della sua ultima mostra realizzata a Milano nel 1987, un mese prima di morire, quella dedicata all’Ultima Cena di Leonardo.





     
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